Si dice dare i numeri, e non certo in senso positivo. E invece abbiamo bisogno di dare i nomi.
To name the world.
Gira un video, in rete, nella mia bolla, in cui Ian McEwan, ospite a Mantova per la festa del tesseramento del Festivaletterattura, richiama il discorso che Alber Camus fece nel 1955, alla cerimonia di consegna del premio Nobel a Upsala. Diceva che in tempi difficili, pericolosi, la letteratura deve parlare chiaro e semplice, deve parlare a tutti perché deve “nominare il mondo”. Dare un nome alle cose è il primo passo della conoscenza. E ogni volta che il mondo cambia in modo radicale (in genere si tratta di un cambiamento graduale che però viene ignorato finché non diventa evidente e ineludibile) ci vogliono nuovi nomi. Nuove definizioni.
Quando scriveva Camus c’era ancora il segno profondi della guerra e dell’Olocausto, e c’era la minaccia della guerra fredda.
Ora ci sono diverse guerre, moltissime armi nucleari che sembra però non ci preoccupino più, una crisi climatica che viene negata. Insomma sono troubled times come se non peggio che nel 1955.
La letteratura c’è ancora, le persone che scrivono la verità ci sono ancora. Non sembra siano in molti quelli che ascoltano, ma forse è solo perché stanno in silenzio.
By the way, tra qualche giorno comincerò a leggere il nuovo libro di McEwan, Quello che possiamo sapere








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