Signore invisibili #5: andando indietro con i ricordi

Chissà da dove mi è arrivato, l’interesse per il vestire, per la moda, per l’estetica più in generale.
Perché più vado indietro nel tempo, a ricordare l’adolescenza e l’infanzia, più vedo dei tratti miei che ora sono più netti e marcati ma che ci sono sempre stati.
Lo so che sembra una di quelle operazioni che facciamo quando ci disamoriamo di qualcuno, per cui all’improvviso si squarcia il velo dell’obnubilamento amoroso e i difetti che avevamo sempre visto ma finto di non vedere si palesano in tutta la loro chiarezza, e ci diciamo ma come ho fatto a non vederli.
Sembra la stessa operazione ma non lo è.
Prima di tutto perché quando noi parliamo di noi stessi non ne parliamo da innamorati. Di sicuro noi donne, ma forse in modo diverso anche gli uomini, ci troviamo più difetti di quanti ne abbiamo, spesso ci detestiamo, siamo intolleranti con noi stessi più che con chiunque altro. Volersi bene è una cosa che si impara, almeno nel nostro mondo e nel nostro tempo. Magari i bambini si vorrebbero bene in modo naturale e semplice e istintivo, ma si trovano da piccolissimi immersi in un contesto di obblighi e aspettative, di categorie e pregiudizi che li allontanano da se stessi, e quindi poi devono rifare il percorso all’inverso, ritrovarsi e volersi bene per quello che sono.
Molte e molti di noi questo percorso l’hanno fatto e lo stanno facendo, con effetti benefici per sé e per gli altri.
Ci sono anch’io, tra questi.

Il mio primo ricordo legato alla moda è su un autobus. Siamo a Pisa, dove ci siamo trasferiti quando io facevo la quarta elementare. Ci siamo trasferiti “obtorto collo”, come direbbe mia mamma con un’espressione che mi piace molto e che infatti uso spesso. Quell’obtorto collo mi dà proprio la sensazione di qualcuno che ti prende per le spalle o per la giacchetta e ti tira dalla parte dalla quale tu non volevi andare.
Sicuramente mia mamma non ci voleva andare, a Pisa. D’altro canto, Dante l’ha definita vituperio delle genti e chiunque si ricorda che è meglio un morto in casa che un pisano all’uscio. Considerato che per mia mamma l’unica città in cui si poteva vivere era Milano, si capisce lo choc culturale e il dolore di collo difficile da placare.
Noi, io e i miei fratelli, eravamo bambini e tutto sommato felici di cambiare. Eravamo stati a Perugia e ora arrivavamo a Pisa.
Avevamo preso una bella casa, un attico in una zona appena costruita, con un grande terrazzo. Peccato che dopo poco che ci eravamo trasferiti ha cominciato a piovere anche in soggiorno. Non fitto fitto, ma sensibilmente. Allarme rosso! Telefonate con l’amministratore del condominio, scambi di informazioni con la vicina, agitazione su tutti i fronti. Noi bambini eravamo abbastanza divertiti, una bella novità che piovesse in casa! L’amministratore del condominio, dopo avere decretato “guardi, signora, è un lavorone…qui fino a primavera non si può far nulla” ha mandato un paio di operai che sono saliti sul tetto e hanno steso un telo sopra il punto da cui pioveva. Ci siamo tenuti il telo per tutto l’inverno, periodicamente il vento lo portava via e gli operai tornavano a sistemarlo. Non penso che mia mamma fosse contenta, ma non ho dei ricordi precisi. Per me era tale lo spaesamento della nuova città, della nuova scuola, di bambini sconosciuti, che non riuscivo ad accorgermi di molto altro.
Capitava di rado che prendessimo l’autobus, eravamo una famiglia di camminatori. Qualcuna di voi magari se la ricorda, quella pubblicità i cui protagonisti erano “Gli incontentabili”, una famiglia tipica, babbo mamma figlio figlia, che marciavano a grandi passi da un negozio all’altro in cerca credo della televisione perfetta. Noi eravamo un po’ così. Poca televisione ma molte ricerche e molte marce. L’autobus, che a Pisa si chiama pullman indistintamente, di città o fuori città, l’autobus lo prendevamo qualche volta con la zia, che era indulgente e se eravamo stanchi ci concedeva il mezzo pubblico invece di insistere per andare a casa a piedi.
E io ricordo questo autobus, e me stessa con una borsetta, di sicuro regalo della zia, che fingevo di essere una signorina inglese, di non conoscere nessuno dei miei familiari e di non sapere l’italiano. Avevo la borsetta al braccio come mia mamma e mia zia. Non so cosa avessi indosso, i vestiti che ricordo di avere avuto da bambina in genere non mi piacevano, non conoscevo nessuna persona inglese e neppure una parola della lingua, ma c’era questa affermazione di diversità che mi è rimasta impressa, anche perché come potete immaginare sono stata presa in giro per anni e anni, mi chiamavano la signorina inglese e vi assicuro che non lo facevano con ammirazione!

Però poi sono diventata l’“arbiter elegantiarum”. C’avevano un po’ la fissa del latino, i miei, direte voi, e penso che sia vero ma penso che fosse un po’ come noi con l’inglese, da un lato ci fa piacere far vedere che lo sappiamo così bene da poterlo usare al posto dell’italiano, dall’altro l’abbiamo studiato così tanto che in effetti abbiamo imparato dei concetti, in quella lingua, che ora ci affiorano alla mente in quella forma e non in un’altra. So che per me è così con l’inglese, e immagino che così fosse per mia mamma con il latino. Ci aveva anche raccontato di essersi trovata a parlare in latino con un tedesco, una volta, era la lingua che avevano in comune. Cose che adesso sembrano da marziani…

Come arbiter elegantiarium, comunque, non ho mai amato dire no, quella cosa non te la devi mettere, quello ti sta male. Penso che davvero ognuno abbia diritto ai suoi gusti. Mi piace piuttosto essere di esempio, di ispirazione.

Il mio blog vuol essere questo, ancora. Mi fa piacere quando qualcuno mi scrive che mi ha visto indosso qualcosa e ha provato la sua versione di quel mix. E’ un po’ quello che faccio io, osservo molto, guardo molto. Giornali, riviste, blog, foto, altre persone. C’è tanta gente interessante, che si veste in modo originale, magari semplicissimo ma personale. C’è tanta gente bella, di una bellezza unica e propria. C’è sempre da imparare, da scoprire, da studiare.

E per fortuna l’unicità e la diversità si sono fatti strada. Mi ricordo che quando ero giovane ogni stagione e ogni anno andava di moda una cosa specifica: le gonne lunghe oppure corte, le scarpe con la punta quadrata, tonda o appuntita, i pullover larghi oppure stretti. Ora per fortuna va di moda tutto contemporaneamente: se guardate i modelli delle sfilate, da un po’ di anni propongono gonne lunghe e corte, pantaloni larghi, a sigaretta e skinny, scarpe con le zeppe e piatte, tutto e il contrario di tutto. Cosa di cui sono molto felice perché così posso combinare tutto quello che ho nel modo che più mi piace, senza stressarmi che qualcosa “sembri dell’anno scorso”. Modo buffo di dire, perché in genere quello che “sembra dell’anno scorso” è effettivamente dell’anno scorso, e se non fossimo così consumisti e così viziati dall’eccesso di offerta e dal low cost ne saremmo contenti.
In fondo un capo dell’anno scorso dovrebbe essere in buono stato e ancora molto portabile. E di certo molte e molti di voi non se ne preoccupano minimamente. O se ne preoccupano in misura minima. Tra i fashion addict, fashionisti o modaioli, e quelli che la moda non sanno neppure cos’è o la detestano per principio c’è un vasto mezzo di gente normale e varia, a cui piace vestirsi bene e soprattutto in un modo personale.

E’ importante custodire e coltivare la propria diversità. Non basta dire che siamo tutti diversi, bisogna metterlo in pratica cercando di conoscersi e di rispettarsi per quello che si è. La ricerca di un proprio stile nel vestire fa parte di una ricerca più ampia per capire chi siamo, da cui consegue cosa ci piace e cosa ci fa stare bene. Una volta che siamo sicuri di questo, pur sapendo che si cambia un poco ogni giorno, i diktat della moda ci faranno un po’ ridere, o saranno al massimo un punto di riferimento da cui partire per scegliere cosa indossare.

Alle volte quando mi guardo allo specchio prima di uscire, per dare un’occhiata all’insieme ed essere sicura che quello che ho messo mi piace ed è in armonia, penso a quello che è cambiato e a quello che è rimasto uguale nel mio stile.
Quello che è cambiato è abbastanza ovvio: non mi metto più le gonne corte, gli shorts d’estate, e scopro volentieri solo le caviglie; porto ancora qualche canottiera ma preferisco le maniche a tre quarti; ho limitato l’oversize a un pezzo solo, preferibilmente una camicia o un maglione. Ogni tanto mi ricordo di qualche vestito o paio di scarpe o borsa che ho amato molto, o di un insieme che mettevo e che vorrei ancora avere. Me li ricordo con affetto, spesso insieme ad un accadimento, ad una persona, ad un luogo. Sono contenta di averli avuti, sono contenta di avere così tanti ricordi. Anche se alle volte i ricordi fanno un po’ piangere, smuovono parti di noi che erano state zitte fino ad un attimo prima, spostano gli equilibri del momento.
Quello che è rimasto uguale, nel mio stile, è comunque di più di quello che è cambiato. Continuo ad amare le belle borse, continuo a pensare che le scarpe siano fondamentali, continuo a portarle basse e spesso sportive. Continuo a mettere cose semplici, con magari un dettaglio particolare. Continuo a portare pochi gioielli. Continuo a preferire i colori neutri e primari, e a metterne insieme pochi e della stessa gamma.

Tutto sommato, penso che avere un proprio stile sia proprio questo. Restare se stesse pur cambiando.

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